Riccardo Sadè - 17 Maggio 2023
Egli nasce ritrovandosi catapultato all’interno di un determinato contesto sociale. Interagisce dapprima con i membri della famiglia poi lentamente espande le sue frequentazioni. Quindi si ritroverà ben presto su un angusto banco di scuola da cui potrà ricevere superficiali rudimenti di matematica, italiano, storia, geografia ma, soprattutto, gli verrà insegnato che la scuola è un mezzo. Il bambino comincia allora a volgere il suo sguardo un po’ più in là, alle scuole medie in cui potrà allora sentirsi grande facendo “le cose dei grandi”. Egli ha 6 anni ma ne vorrebbe avere 11.
Arrivano, ovviamente molto lentamente, le scuole medie inferiori in cui egli aveva riposto ogni speranza di realizzazione e, dopo un primo entusiastico ingresso, egli per 5 ore al giorno dietro un banco, proporzionatamente più angusto del primo, si ritrova a sperare che la campanella arrivi presto, che l’estate arrivi presto, che la scuola finisca presto.
Anche la scuola media finisce tra sofferenze e speranze. Finalmente cominciano le superiori, quelle dei grandi. Qui iniziano le prime storie d’amore, i primi compiti in classe seri, le prime compagnie con cui uscire. Siamo in piena adolescenza. Anche qui però pare che il senso di precarietà continui e le superiori siano destinate ad essere un mezzo finalizzato a scopi più alti: l’università per chi vuole continuare il percorso di studi, il lavoro per i restanti. Dunque, egli ora lavora o studia. Spesso, tristemente, svolge un lavoro che nulla ha a che fare con le sue più intime aspirazioni che relega invece (se può e riesce) a quell’ora scarsa nel dopo-cena o nel weekend che chiama “momento per me”. È quindi netta per lui la differenza tra mestiere e hobby. Con quest’ultima parola, presa in prestito dall’inglese, l’uomo comune intende spesso l’attività che farebbe con grande gioia tutto il giorno se non dovesse andare a fare “il lavoro vero” che occupa 8 ore della sua giornata.
Analizziamo ora il caso dello studente universitario che ha scelto una facoltà di studi. Ciò che l’ha mosso è un misto di ambizione, conformismo, paura del futuro, timore di disobbedire alle volontà genitoriali e, se va bene, un po’ di amore per la materia di studio. È triste ma è così. È una bestia rara lo studente che è innamorato di ciò che studia, gli altri tendenzialmente se la raccontano.
Comunque, sia mentre lavora, sia mentre continua a studiare, lo sguardo è altrove. Il lavoratore guarda all’eterno riposo della pensione (che sembra, in termini e non solo, molto simile alla Morte) e l’universitario ad un possibile impiego in cui la sua Laurea possa essere esibita e riconosciuta. Arriva comunque per entrambi la pensione. Comincia allora un periodo d’indolenza, durante il quale l’individuo arranca giorno dopo giorno sperando, come un infante, che i parenti gli portino una caramella che possa lenire il suo angosciante senso di vuoto, quel vuoto che egli ha per tutta la vita evitato di sentire. La caramella ha il sapore delle vuote chiacchiere e delle attenzioni distratte dei visitatori. La morte è vicina. In un bagliore di intuizione capisce che quello che chiamava, con fiera ingenuità, libero arbitro è in realtà un’accozzaglia di meccanismi automatici. Il vuoto diviene paura della dissoluzione e della sofferenza.
Egli con molta riluttanza lascia il suo corpo. Amen.
Vi consiglio l’ascolto attento della canzone “Aspettando Godot” dell’ironico e geniale Claudio Lolli ispirata all’omonima opera teatrale di Samuel Becket che bene descrive la condizione umana. Qui il link della canzone: Aspettando Godot (probabile combinazione tra i termini God e Dot, rispettivamente Dio e punto. Lascio a voi la facoltà di comprenderne il perchè.)
Un abbraccio,
il vostro R.