Riccardo Sadè - 13 Gennaio 2024
Ricordo ancora con affetto il periodo in cui iniziai a lavorare come corriere per una nota azienda. Il lavoro era duro ed io, inizialmente, non avevo sufficiente pelo sullo stomaco per adottare quegli stratagemmi che mi avrebbero permesso di arrivare a fine giornata in uno stato psicofisico buono. Per me lavorare, qualsiasi fosse l’impiego, era considerato Servizio (sono tutt’oggi dello stesso parere) e come tale andava onorato; e così era anche quando consegnavo pacchi. Ricordo i miei colleghi “scaltri” che riuscivano ad avere quel giusto grado di menefreghismo per lavorare con fluidità e in economia energetica. Per me non era possibile fregarmene: qualcosa dentro di me me lo impediva, costringendomi a dare attenzione ad aspetti che la maggior parte dei miei colleghi considerava inutili perdite di tempo: l’attesa del cliente, il rapporto cordiale con il cliente, il massimo impegno a fare i cosiddetti ripassi (il ripasso è quando ritenti nella stessa giornata di consegnare un pacco ad un cliente) per tornare in azienda col minor numero di colli possibile. Capite bene che questo zelo mi faceva arrivare a fine giornata soddisfatto ma piuttosto stanco. Molti miei colleghi erano soliti, non trovando il cliente in casa, lanciare i pacchi all’interno del cortile, se questi viveva in una casa singola, o lasciarli sul pianerottolo se invece viveva in un condominio, sottoponendo così la merce al rischio di furto. Ricordo le rare volte in cui anche io provavo la via furba. Un disastro. I pacchi venivano smarriti, oppure il cliente furbacchione dichiarava di non averli ricevuti ottenendo così un rimborso o un doppio prodotto.
Una volta, mi dissi: “Ok Riccardo, non c’è nulla di male se lasci il pacco dentro il giardino. È una zona isolata e il rischio di furto è dello 0,00001%. Il cliente sarà poi contento di trovare il suo pacco per tempo.” Forte di questo pensiero, appoggiai il pacco dentro al cortile, ma qualcosa mi turbò profondamente. Un pitbull fece capolino da dietro l’abitazione e, raggiunto il pacco, cominciò a sbranarlo. “E adesso!?” mi chiesi. Vidi una palla dentro al giardino e l’unica idea che il mio cervello partorì fu più o meno questa:
1) Recuperare la palla mentre il cane è alle prese col pacco;
2) Lanciarla lontano costringendo l’animale a recuperarla;
3) Recuperare il pacco mentre il cane corre verso la palla;
4) Appoggiare il pacco (sperando che il cane non l’abbia distrutto) sul davanzale, fuori dalla portata della bestia.
Feci tutte queste mosse in sequenza e, miracolosamente, riuscì nell’impresa. Il cane per poco non mi raggiunse, ma con un salto alla “olio cuore” mi misi in salvo.
Ricordo che una volta convocarono i corrieri che avevano ricevuto più reclami per far loro la ramanzina e, indovinate, c’ero anche io. Ho ancora memoria di quell’assurda riunione perchè mi ritrovai in una stanzetta assieme al capo e ai miei colleghi più loschi (molti dei miei colleghi sembrano avanzi di galera. Forse un giorno vi racconterò dell’accoltellamento che avvenì in parcheggio). Trovavo immensamente ironica la situazione e mi chiedevo: “com’è possibile che io che faccio di tutto per fare gli interessi dell’azienda e dei clienti, le rare volte in cui trasgredisco, mi becco il richiamo?”. Per me lasciare i pacchi incustoditi era grave. Lavorare così era grave per la mia coscienza. Non potevo permettermelo. Per i miei colleghi corrieri lanciare i pacchi era un gesto normale, allineato al loro livello di consapevolezza, per il quale non avevano rimorsi e che, quindi, non aveva ripercussioni karmiche immediate.
Capì molto più sul karma da quel periodo che dalla lettura di grandi libri esoterici.
E qualcosa su cui meditare a lungo,
il vostro corriere dell’anima.
R.